Wednesday, April 27, 2005

Revisionismi:J Mascis – Martin & Me

Il bello delle canzoni è che ci puoi fare quello che vuoi. Sempre.
Puoi storpiarle o tentare di riprodurle fedelmente, puoi provare a riscriverne il testo secondo quelli che sono i tuoi umori del momento oppure cantarle “ a pappagallo”, come si faceva da bambini con le poesie. Soprattutto quelle di Natale. Soprattutto quelle recitate in piedi sulla sedia, in attesa che un parente più clemente degli altri sganciasse una mancia degna di questo nome.
Il fatto è che le canzoni (quelle belle) sono fatte apposta per rimanere attaccate al cuore ed alla testa delle persone, ci mettono pochissimo tempo ad abbandonare il privato di chi le ha scritte e trasformarsi in qualcos’altro. Qualcosa di diverso, ma altrettanto significativo.
Nel 1996, in Italia, le radio davano ancora un po’ di spazio alla “nostra musica” e poteva capitare di spendere serate intere attaccati ad un apparecchietto a transistor, giusto per scoprire quali fossero i dischi da non perdere assolutamente e le novità da seguire con attenzione.
Per anni non sono mai uscito di casa quando andava in onda Planet Rock.
Ve lo ricordate Planet Rock, no?
Lo trasmettevano sul secondo canale nazionale ed era un vero “miracolo”: uno show che senza soluzione di continuità ti faceva ascoltare un brano di musica elettronica sperimentale seguito dal singoletto della band britpop di turno, programmava per il martedì un concerto dei Pavement e per il giorno dopo uno dei Guns ‘n’ Roses. Così, senza barriere o limitazioni di sorta.
Nell’estate di quell’anno, gli autori del programma si erano inventati uno strano sistema per valutare i dischi in uscita: una strana scala di valori che partiva dal “disco valido” (appena sufficiente) ed arriva al “disco pentavalido” (capolavoro assoluto).
La sera in cui “Harmacy” dei Sebadoh venne riconosciuto per quello che è, vale a dire un disco che dovrebbe essere distribuito con il latte la mattina in quanto necessario e nutriente, trasmisero anche un pezzo da “Martin & Me”, il primo lavoro solista di J Mascis. Era una cover degli Smiths (The Boy With a Thorn in His Side) eseguita solo con voce e chitarra. La voce di Mascis e una chitarra chiamata Martin. Per la precisione.
Lo bollarono come: “La solita roba”. Il solito J Mascis che non riusciva a reggere il confronto con il suo amico/nemico di sempre Lou Barlow.
Invece era tutt’altro: era il racconto di una alzata di testa, la storia di una presa di posizione.
Era J Mascis che catturava le canzoni dei Dinosaur Jr e le riportava alla forma privata in cui erano state concepite, era il modo con cui “il nostro” si riappropriava del suo passato e lo trasformava nella prima pietra di quello che da lì in poi sarebbe stato il suo futuro.
Ascoltare i brani di “Martin & Me” uno dopo l’altro, fa uno strano effetto, pescati a caso dalla miriade di album pubblicata dai dinosauri nel corso di un decennio (1986 -1996), in realtà sembrano appartenere tutti allo stesso periodo storico, come se fossero stati scritti per l’occasione.
Questo è insieme il più grande difetto e il più grande pregio dell’album e dell’intera carriera di Mascis sia con i Dinosaur Jr, sia da solo che in compagnia dei Fog: la capacità di scrivere canzoni immediatamente riconoscibili e capaci di trasformarsi in classici. Canzoni contraddistinte da una sorta di marchio di fabbrica talmente evidente da farle sembrare ognuna il clone dell’altra. Un marchio di fabbrica evidente come forse solo quello di Stephen Malkmus e di Neil Young, ma questo già si sa.
Quello che non bisogna far finta di non sapere è che canzoni come Get Me, Thumb e Keeblin non le scrivi se sei uno qualsiasi, canzoni come quelle le fai solo se sei “un grande”.
E J Mascis grande lo è stato fin da subito, fin da quando girava l’America in compagnia di gente come i Sonic Youth e gli Wipers, l’epoca in cui veniva chiamato dalle giovani band (per dirne una: i fantastici Buffalo Tom degli esordi) per cercare di dare “il suo tocco”, il tocco del dinosauro, ai loro dischi. Quello che rende “Martin & Me” un disco diverso da tutti gli altri è quel senso di solitudine che riempie tutti i solchi dell’album, una solitudine voluta, cercata ed ottenuta un po’ per riaffermare quella paternità della musica di cui parlavamo poco fa, e un po’ raccontare una vicenda centrale per la storia dell’underground americano e non solo.
La storia di un uomo solo al comando.